1 Aprile. Dopo
essere stato svegliato nel mezzo della notte da due contadini che volevano
sapere cosa stessi facendo, crollo di nuovo e dormo fino alle nove, incurante
del sole già alto nel cielo.
Sulla strada per
Diyarbakir do un passaggio ad un ragazzo diciottenne che, come buona parte
della popolazione, parla solo turco. Mi lascio guidare verso la
sua scuola dove, a quanto avevo capito, voleva cercare un insegnante d’inglese
per comunicare con me. Mobilita l’intero corpo docente, andando da un piano
all’altro e, dopo una buona mezzora, quattro tazze di tè ed infinite strette di
mano, mi passano una ragazza al telefono che finalmente parla inglese. È la
figlia di un insegnante di letteratura che si propone di portarmi in giro per
la città. Accetto ben volentieri e, salutati tutti i presenti, mi avvio con il
ragazzo verso il luogo dell’appuntamento. Una volta lasciatomi nelle mani di
questa ragazza e delle sue amiche, il ragazzo ci saluta e scompare tra la
folla. Passo l’intera giornata sorseggiando tazzine di tè sulle mura, nei
mercati, nei baretti a bordo strada e facendo lunghe chiacchierate sull’attuale
situazione curda.
Qui la polizia è
sempre in tenuta antisommossa e gira con mezzi corazzati che sembrano più carri
armati che automobili. Nonostante Abdullah Öcalan, leader dei curdi, abbia dichiarato la
cessazione delle ostilità da parte dei suoi uomini, aerei ed elicotteri
militari sorvolano la città in continuazione e si dirigono verso le montagne
per bombardare i nascondigli di questi militanti del PKK. La situazione è molto
tesa. L’intera popolazione nutre un odio profondo per i poliziotti turchi che
vengono da tutti considerati alla stregua di invasori. Dizionari, stampa locale
ed ogni forma di curdo scritto sono considerati illegali.
La sera le
ragazze mi hanno portato ad una manifestazione per la liberazione del loro
leader, dove erano presenti tutte le madri dei giovani fatti scomparire dalla
polizia negli ultimi anni.
Per la notte, mi
hanno trovato posto da una giovane coppia appena conosciuta nella libreria dove
ci eravamo dati appuntamento la mattina.
Buonissima cena a
base di vino rosso di Mardin e zuppa di testa di manzo. Sul bancone del locale
c’erano quattro vassoi pieni di carne lessata con un aspetto poco rassicurante.
Cervello, lingua, guance ed occhi. Una cucchiaiata da ognuno, un mestolone di
brodo e via in tavola accompagnato da insalata, sottaceti ed una cipolla cruda.
L'ennesimo tè della giornata. Questa volta in cima alle mura di Diyarbakir. |
Colazione con olive piccanti, frittata, formaggi e verdure. |
2 Aprile. Mattina
ancora a spasso per la città con i miei nuovi amici. Pomeriggio 500km in auto
con destinazione Trabzon. Notte in cima ad un passo ad un’ora dalla città,
pronto per scendere presto la mattina seguente e recarmi al consolato Iraniano
per il visto.
3 Aprile. Sono
davanti al consolato all’orario d’apertura. Entro e mi siedo accanto alla scrivania
della segretaria che continua tranquillamente una telefonata personale per una
buona mezz’ora.
Alla fine attacca
la cornetta e si gira verso di me. Ha un’occhio azzurro ed uno marrone.
Mi fa compilare
un paio di moduli, sfoglia il passaporto, mi dà le indicazioni per la banca
dove andare a pagare il bollettino e mi dice di passare alle quattro del
pomeriggio a ritirare i documenti (ad Ankara, per farsi rilasciare il visto
servono da una a due settimane).
La sera sono
ospite da un ragazzo che abita in un paesino sulla costa del Mar Nero e sta
studiando per diventare capitano. In casa ci sono anche altri due ospiti: uno
spagnolo ed una russa che stanno andando verso l’Italia in autostop. Purtroppo
vado nella direzione opposta.
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